Etica sensitività sensibilità

Un istruttore militare americano, che aveva addestrato i militari in partenza per il Vietnam ha dichiarato a Newsweek qualche tempo fa: ai miei tempi ci volevano sei mesi per insegnare a un ragazzo ad uccidere un essere umano. Oggi chi fa quel lavoro sa che non è più così.

I ragazzi che debbono partire per l’Iraq arrivano già pronti ad uccidere quando il corso comincia.
Cosa è accaduto alle prime generazioni post-alfabetiche, quelle che hanno imparato più parole da una macchina che dalla mamma (quelle che alcuni chiamano generazioni post-umane)?
Si tratta di una questione etica? A mio parere l’etica va ripensata partendo dalla sensibilità. Non vi è altro discorso etico efficace che non sia fondato sull’amore di sé. E l’amore di sé non può che essere amor dell’altro. Autodisprezzo e cinismo vanno insieme. E al cuore della questione etica vi è il problema della sensibilità (o della sensitività?)

Sensibilità e sensitività hanno un significato diverso in italiano come in inglese sensibilità and sensitivity.
Sensibilità è la capacità di cogliere il significato di ciò che non può essere espresso in parole.
Sensitività è la capacità di sentire la pelle dell’altro come piacere.
Ma quando tra le due facoltà si determina uno scarto, il disturbo della percezione epidermica dell’altro diviene incapacità di comprendere il significato dei segni che dall’altro provengono.

La caduta tendenziale del saggio di piacere
Le Monde del 19 lugliio 2007 riferisce che Durex, il gigante del preservativo, la grande corporation produttrice di condom ha commissionato un’indagine all’Istituto Harris interactive.
Sono stati scelti ventisei paesi di culture diverse. In ogni paese sono state intervistate mille persone su una questione semplice: quale soddisfazione provano nel sesso. Solo il 44% degli intervistati ha risposto di provare piacere nella sessualità.

Può darsi che i bipedi post-moderni provino piaceri raffinatissimi nel lavoro o nella guerra, chi lo sa. Ma certo l’amore non riscuote grande successo di pubblico, tanto più che è difficile credere che tutti i quarantaquattro su cento abbiano detto la loro intima verità, quella che corrisponde al loro più profondo sentimento, mentre possiamo star certi che i restanti 66 sono infelici davvero.

Le spiegazioni che sessuologi psicologi e sociologi forniscono su queste cose sono in generale poco interessanti: la liberazione dei costumi sessuali, la crisi del desiderio, la mercificazione del corpo umano, la banalizzazione mediatica del sesso. Spiegazioni che spiegano poco. Lucy Vincent, una neurobiologa intervistata nel luglio del 2007 dal giornale Le Parisien, offre un’interpretazione intelligente sebbene un po’ sintetica: “On ne s’accord plus assez d’attention”. Non siamo più in grado di dare attenzione a noi stessi. Non abbiamo abbastanza tempo per fare attenzione a noi stessi e a coloro che vivono intorno a noi. Presi nella spirale della competizione non siamo più capaci di capire nulla dell’altro.

L’attenzione, facoltà cognitiva che rende possibile la piena percezione di un oggetto mentale (il nostro proprio corpo, per esempio, o il corpo della persona che accarezziamo) è disponibile in quantità limitata, tanto è vero che negli ultimi anni alcuni economisti (gli economisti, veri e propri becchini dell’anima umana) hanno cominciato a parlare di attention economy, e quando una risorsa diviene oggetto di quella scienza necrofila, vuol dire che è diventata una risorsa scarsa.

L’attenzione è una risorsa scarsa, tanto è vero che ci sono tecniche per ottimizzarla. Nelle società postindustriali l’attenzione viene assorbita in maniera crescente dalla competizione, è naturale che di attenzione ne resti poca per un’attività che non può aver nulla a che fare con la competizione e con la produttività. A riprova di questa ipotesi l’indagine della Durex offre i seguenti dati disaggregati: solo il 15% dei giapponesi dichiara di provare soddisfazione nel sesso, solo il 25% dei francesi (che pure dichiarano di farlo più spesso di tutti gli altri), mentre tra i messicani il 63%, e tra i nigeriani (i più felici di tutti, visto che l’unico lavoro competitivo che possono svolgere consiste nel rubare petrolio dai tubi che gli occidentali costruiscono alla periferia dei loro villaggi) addirittura il 67%.
La caduta tendenziale del saggio di godimento è, credo, la legge fondamentale dell’economia del semiocapitale.

Provo un certo imbarazzo per questo mio lurking, questo mio spiare dal buco della serratura nelle camere da letto dell’umanità. Cerco i segni di una sofferenza che non è certo possibile quantificare. Eppure sono convinto che in questa crescente infelicità da disattenzione si trovi il punto decisivo per le strategie di soggettivazione a venire, perché la disattenzione è l’effetto dello sfruttamento competitivo del nostro tempo.
La sensibilità è il punto decisivo.
Sensibilità è la facoltà del comprendere quei segni che non possono essere verbalizzati, cioè codificati in maniera discreta, verbale, digitale. Quanto più l’attenzione umana viene assorbita dalla verbalizzazione, dalla codificazione digitale, dalla modalità connettiva, tanto meno sensibili sono gli organismi coscienti.
Infelicità può significare forse proprio questo: coscienza senza sensibilità. Disarmonia tra gioco cosmico e deriva singolare. Singolarità disarmonica.

I neo-umani delle prime generazioni post-alfa non sono asessuati né de-sessualizzati, al contrario. Il sesso è sempre più pubblicizzato sempre più largamente disponibile sugli scaffali dell’ipermercato globale. Il sesso occupa sempre il il centro della scena del discorso pubblico e anche del discorso privato. Ma all’iper-sessualizzazione tardo-moderna corrisponde una crescente de-sensibilizzazione. E questa è la causa della fragilità della psicosfera emanata dal semiocapitale

Come e dove possiamo trovare i segni di questa de-sensibilizzazione, dato che le indagini quantitative e le statistiche non possono essere prese troppo sul serio?
Nella fenomenologia dell’arte, della letteratura, del cinema io trovo questi segnali.

In Time, un film del 2006, Kim Ki Duk racconta con un linguaggio poverissimo, scheletrico, banalizzato (fotoromanzo, tlenovela televisiva) una storia di estrema raffinatezza e complessità. Una storia d’amore, il timore di non essere amata nel tempo, il desiderio di prendere le fattezze dell’altra, di essere l’altra. Il desiderio come gioco dello spostamento, dell’inganno, dello scivolamento. Il desiderio è desiderio dell’altro e l’altro è sempre terzo tra te

e me. La chirurgia estetica non è che metafora di questo continuo gioco di spostamento.
Proliferazione delle apparenze, deterritorializzazione interminabile del segno erotico, corporeità inafferrabile.
La separazione degli amanti, la più dolorosa ferita che l’uomo e la donna possano soffrire nel loro corpo e nella loro anima, diviene esperienza continua, esperienza quotidiana, esperienza inevitabile, quando i segni erotici si mettono a proliferare sui muri della metropoli, all’angolo di ogni strada, in ogni ambulatorio di chirurgia estetica.
La perdita dell’oggetto amato, e la nostalgia di un’alterità riconoscibile sono banalizzate dall’inflazione semio-erotica, e il cuore deve cicatrizzare le sue ferite emozionali con interventi di chirurgia semiotica. Kim Ki Duk conosce benissimo il gioco della leggerezza (la grazia, l’armonia, l’amore che non ha bisogno di identificazione, il desiderio che sfugge alle regole del potere ed alle leggi della gravità). E’ il tema di Ferro3, il film del 2004 che ha dato la misura precisa della genialità di questo regista. Qui, in questo suo Time, ci mostra l’altra faccia della grazia: la catastrofe del desiderio, la pesantezza insostenibile che sta nella inflazione semio-erotica, la devastazione dell’anima che segue alla banalizzazione pubblicitaria del desiderio.

Melissa p

100 colpi di spazzola prima di andare a dormire è il libro di un’adolescente italiana, Melissa P, che ha avuto un successo internazionale stupefacente, ed è stato letto da milioni di giovanissimi, soprattutto ragazze, come un resoconto fedele della loro ricerca e del loro disagio. Si tratta del diario di un’educazione sentimentale che passa attraverso esperienza di sesso caotiche, estreme, dolorose ed entusiasmanti, ingenue e scaltre. Non è mia intenzione giudicare questo libro con il metro della critica letteraria, né discutere del grado di autoconsapevolezza critica dell’autrice. Il libro è scritto con sincerità e con delicatezza da una giovane donna che non possiamo definire colta, ma neppure completamente ignorante, e riesce a testimoniare il senso della ricerca esistenziale, dello smarrimento dell’angoscia nel deserto della insensibilità (soprattutto maschile) contemporanea.
Melissa P cerca il piacere dei sensi, e al tempo stesso l’avventura della conoscenza. Ma in questa sua ricerca non dispone di alcun altro criterio di valutazione che non sia quello maschile. Per quanto l’autrice non ci parli del suo mondo di formazione noi sentiamo bene che i suoi riferimenti sono quelli che può trovare una ragazza di famiglia borghese di una città italiana degli anni berlusconiani: la televisione dei reality show, pochissimi libri, una scuola incapace di parlare del presente: Nessuna dimensione collettiva, nessun riferimento alla cultura femminista che appare come un’eredità perduta, dimenticata, seppellita sotto quintali di immagini pubblicitarie. Il rapporto con la famiglia non ha alcun senso, il rapporto con la madre non esiste. Nel mondo di Melissa i cellulari squillano ma nessuno sembra essere capace di attenzione sensibile. In questo deserto sociale il desiderio si concentra sulla sessualità come l’unica porta di accesso al reale. E così Melissa si apre nella sua ricerca, “arrampicandosi” sul corpo maschile per trovare il proprio. Ma quel che trova è triste.

“Mi sono arrampicata su di lui e ho lasciato che la sua asta centrasse il centro del mio corpo. Ho provato un po’ di dolore, ma niente di terribile. Sentirlo dentro di me non ha provocato quello sconvolgimento che mi ero aspettata, anzi. Il suo sesso dentro provocava solo bruciore e fastidio, ma è stato doveroso per me rimanere incastrata a lui a quel modo.” (pag. 35)

Rileggo le ultime parole di questo brano in cui Melissa racconta la sua prima esperienza: “è stato doveroso per me rimanere incastrata a lui a quel modo”. L’identificazione di sé passa qui interamente e unicamente attraverso il maschile. Il corpo penetrante del maschio diviene il dovere che occorre necessariamente compiere, la sottomissione che si deve necessariamente accettare se si vuole avere accesso all’esperienza dell’alterità, alla conoscenza del mondo. Ma questa conoscenza è una trappola, un rimanere “incastrati”. Una metafora straordinariamente eloquente della condizione giovanile precarizzata: l’attesa di conoscenza del mondo si trasforma in una trappola alla quale non ci si può sottrarre.
L’altro, che il cuore attendeva come apertura, si rivela incapace di qualsiasi empatia. L’altro rimane inaccessibile, freddo perché insensibile. E l’insensibilità si comunica inevitabilmente come impossibilità di comunicazione, come autismo.

L’autismo sessuale

Il sesso è ridotto al silenzio. Mentre si parla dovunque ininterrottamente di sesso, il sesso non parla più. E’ l’atto muto. Esperienza dolorosa, noiosa, ripetitiva, tormentosa e incomprensibile, però inevitabile, rito di passaggio e di identificazione, indispensabile per essere riconosciuti in un mondo che non capisce più nulla della singolarità cosciente, del piacere consapevole, della gratuità e della grazia.
La generazione che ha appreso le sue parole dalla macchina in assenza del corpo della madre perde progressivamente la capacità di sintonizzazione col mondo, con l’alterità, con il corpo dell’altro, perché questa sintonia richiede un equilibrio perduto nel rapporto tra infosfera ed antenne sensibili del linguaggio. Credo che possiamo parlare di autismo come modalità patologia predominante nella relazione sociale iper-sessualizzata e de-sensibilizzata indotta dall’inflazione semiotica.

Nessun discorso sulla relazione sociale può prescindere dalla sensibilità intesa come estesia diffusa, come com-passione in senso etimologico: percezione estesa, partecipazione al sentire dell’altro, comprensione carnale del sentito in quanto senziente. Se questa comprensione vien meno non esiste più alcuna base per la convivenza, non esiste più alcuna base per l’etica, né dunque per la politica come scienza eticamente fondata.
L’etica non è infatti definizione di norme universali, ma percezione sensibile dell’universalità del corpo esteso. Se la percezione del corpo esteso si interrompe, se l’empatia vien meno, non vi è più alcuna legge.
Quando l’empatia viene meno, quando l’iper-semiosi de-sensibilizza la percezione del corpo altro, allora tutto è permesso, anzi tutto diviene inevitabile, perché non sentiamo più né l’altrui piacere né l’altrui sofferenza. Non sappiamo più godere né soffrire con l’altro, dunque non sappiamo più cosa sia il nostro proprio piacere, e lo cerchiamo compulsivamente non come si cerca un’esperienza nota e piacevole, ma come si cerca un misterioso al di là irraggiungilbe, freneticamente, con rabbia, con umiliazione. La pesantezza predomina allora nei rapporti tra corpi nello spazio sociale, perché la leggerezza (la grazia) sta solo nella Grande compassione.

Pornografia e tortura

La sfera emozionale è influenzata dall’accelerazione dei tempi di elaborazione degli stimoli, l’empatia si corrompe e si perde per effetto dell’inflazione semio-erotica, per effetto della desensibilizzazione da sovraccarico. Nella fenomenologia esistenziale della generazione post-alfa si manifestano comportamenti che vorrei definire ossessivi: la pornografia e la tortura che dilagano nella rappresentazione della vita quotidiana, e nella comunicazione elettronica, possono essere definiti come comportamenti ossessivi ad origine artistica.

Nel 1907 Freud scrisse un saggio sulla sintomatologia dell’ossessione e i rituali religiosi, Nel suo punto di vista il rituale ha qualcosa a che fare con l’ossessione perché ha lo stesso carattere di compulsiva ripetizione e di irrealizzazione. Irrealizzazione e ripetizione compulsiva sono caratteristiche evidenti del comportamento religioso come di quello pornografico.

Naturalmente si può trovare pace e armonia e benessere nel rituale religioso, e si può trovare piacere nel consumo pornografico. Ma questo dipende soltanto dal soggetto, non dal rituale, o dall’immagine porno in se stessa. In quanto tali, il comportamento religioso come la sessualità pornografica mettono in scena rituali che portano lo stigma della nevrosi ossessiva: ripetizione di atti che sono privi di significato e privi di efficacia specifica. Ripetizione di atti che non riescono ad ottenere il loro scopo e quindi vengono ripetuti compulsivamente fino a trasformarsi in ossessioni.

Ossessione è la ripetizione compulsiva di un rituale che non riesce a ottenere il suo scopo. Il rituale funziona come scongiuro che tiene insieme il mondo. Il porno in generale ha qualcosa a che fare col rituale: quando la relazione tra corpi diviene difficile, imbarazzante, come accade nell’esperienza della prima generazione post-alfa, il rituale prende il posto del piacere e il porno diventa ripetizione di un atto di visione che non raggiunge il suo scopo emozionale.

Non voglio reclamare un’autenticità originaria del sé erotico, non voglio fantasticare su un’età dell’oro della felicità sessuale perduta. Mi interessa soltanto trovare segni di una patologia nella proliferazione attuale di pornografia: una patologia dell’emozionalità. Questa patologia viene esaltata dalla mediatizzazione e dalla proliferazione in rete del porno.

Nell’infosfera saturata prolifera l’esposizione consumistica del corpo. L’atto visuale è separato dal contatto, e il contatto è separato dall’emozione. La ricerca compulsiva di una scarica emozionale mette in moto la ripetitività dell’atto di visione. Internet, come luogo di una replicazione infinita è il luogo ideale della pornografia.
L’ipertrofia dello stimolo genera l’ossessione.

Durante la loro lenta millenaria evoluzione gli esseri umani hanno lentamente imparato a elaborare lo stimolo dell’eccitazione sessuale: l’intera storia della cultura può essere considerata il processo molteplice di elaborazione del desiderio sessuale. Nell’immaginazione e nel linguaggio gli esseri umani riescono a equilibrare lo stimolo che proviene dall’ambiente e la risposta psico-sessuale allo stimolo. La saturazione dell’infosfera provoca un sovraccarico dello stimolo e questo ha un ovvio effetto cognitivo: il tempo per l’attenzione diminuisce. Ma l’attenzione affettiva richiede tempo e non può essere accelerata oltre un certo limite. Il tempo delle carezze non può essere accelerato da congegni automatici, anche se la farmacologia può accelerare il tempo delle reazioni sessuali o dell’erezione.

L’accelerazione dello stimolo conduce a un disturbo nell’elaborazione emozionale del significato. L’attenzione affettiva soffre una specie di contrazione, ed è costretta a cercare modalità di adattamento: l’organismo adotta strumenti per la semplificazione e tende a levigare la risposta psichica, a confezionare il comportamento affettivo in un contesto accelerato e congelato. Questa ricontestualizzazione della sessualità non sembra funzionare, o per lo meno implica una patologia, una infelicità, un immalinconirsi solitario della passione. Questo coinvolge gli investimenti sociali del desiderio, la capacità stessa di socializzazione felice.

La sensibilità entra in un processo di riformattazione. Il linguaggio deve divenire liscio, connettibile, compatibile. L’immaginazione sessuale è investita dalle superfici glabre dell’immagine digitale.
La generazione post-alfa mostra segni di un’atrofia emozionale epidemica. La sconnessione tra linguaggio e sessualità è impressionante. Il sesso non parla più, si scollega dal linguaggio. Non c’è tempo per parlarne, a mala pena possiamo trovare il tempo per farlo. Il sesso finisce per balbettare, per tacere, o per urlare in maniera sconnessa. Troppo poche parole troppo poco tempo per parlare, per ascoltare, per sentire.
In una città del nord Italia qualche anno fa, un gruppo di giovanissimi uccise una ragazzina dopo averla violentata: gli investigatori che studiavano il caso rivelarono di essere impressionati dall’incapacità dei ragazzi a verbalizzare il loro atto, i loro sentimenti, le loro motivazioni.

Elaborazione sintattica ridotta a zero. Monosillabi. Suoni onomatopeici.

La ripetizione ossessiva di un gesto che non è più in grado di ottenere il suo scopo emozionale, lo sforzo disperato di raggiungere un piacere che non abbiamo il tempo di percepire nella sua intensità: tutto questo ha molto a che fare con il ritorno della violenza di massa, della guerra e della tortura nella scena del mondo. Sia nel mondo occidentale che in quello islamico assistiamo a una quotidiana istigazione alla paura, all’aggressione, all’odio. L’immaginazione del corpo è disturbata dall’ecologia della paura in espansione.
In questo contesto comprendiamo qualcosa della tortura, che negli ultimi anni occupa la scena della politica e quello della cronaca.

La tortura non è mai stata eliminata davvero dalla realtà nascosta della politica, ma per qualche decennio essa è stata ripudiata dalla coscienza ed esclusa dal campo della visibilità sociale. Dopo la sconfitta del nazismo la tortura è stata considerata come il segno definitivo dell’inumanità, come un tabù assoluto, come la parte nera dell’esistenza umana, vergogna inaccettabile da parte della comunità.

Ma negli ultimi anni la tortura è riemersa, è divenuta uno strumento normale dell’azione politica.
Negli Stati Uniti, in Russia, in Iran come in molti altri posti i torturatori sono ufficialmente autorizzati dalle autorità militari e da quelle politiche.

Si mostrano agli amici le azioni di violenza, inviando messaggi video-telefonici o pubblicandoli in Internet. Si diffondono orgogliosamente decapitazioni come dimostrazione di coraggio e di fede religiosa.
Come è potuto accadere? Perché la sensibilità sociale si è trasformata in modo così barbarico e disumano?
La pornografia e la tortura sembrano avere poco in comune. Eppure li abbiamo visti insieme, negli ultimi tempi. Nella tortura dei prigionieri di Abou Ghraib abbiamo visto in azione un immaginazione pornografica, e nell’immaginario pornografico sadomaso la metafora della tortura apre varchi a un effetto di desensibilizzazione.
La diffusione mediatica della tortura e del porno si collocano nel vuoto generato dall’atrofia dell’emozionalità e l’incapacità di provare piacere ha la sua controparte nell’incapacità di percepire l’orrore come orrore.